BARBARA SPINELLI: INTESA A META'

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INES TABUSSO
00venerdì 28 luglio 2006 09:35



LA STAMPA
27 luglio 2006
Intesa a metà
Barbara Spinelli

LA preoccupazione era particolarmente intensa, alla vigilia della conferenza sul Libano che il governo italiano ha organizzato ieri a Roma, ma quel che ha prodotto non è l'appello a una tregua immediata come alcuni - in particolare Beirut - speravano. Erano assenti a Roma i veri padroni della guerra, che sono Israele, Siria e Iran. C'erano alcuni Stati arabi, della cui amicizia il segretario di Stato Condoleezza Rice s'è ripetutamente vantata, ma del mondo arabo-musulmano mancava la componente ormai cruciale, non aggirabile: la componente sciita, che si riconosce nell'Iran di Ahmadinejad o nella maggioranza politica in Iraq. Su questa componente, i sunniti filo-occidentali che sono Egitto, Giordania, Arabia Saudita hanno poca influenza, se ce l'hanno.

Vista la natura devastante della risposta israeliana all'offensiva di Hezbollah è importante che i partecipanti alla conferenza abbiano deciso di aprire immediatamente corridoi per i soccorsi umanitari, e di predisporre una forza multinazionale sotto mandato Onu che aiuti l'esercito libanese a recuperare autorità lungo il confine con Israele, al posto delle milizie Hezbollah. Ma il soccorso umanitario è spesso l'accettazione di quel che a parole vien definito inaccettabile (la ferocia delle guerre che colpiscono i civili). Il ministro degli Esteri D'Alema, nella conferenza stampa, è stato forse il meno dissimulato: «Pensare di ottenere subito il cessate il fuoco non era realistico», ha detto, aggiungendo tuttavia che nella dichiarazione congiunta si auspica con «massima urgenza» (utmost urgency) una tregua armata, e che gli sforzi per ottenerla devono - questi sì - essere «immediati».
Che significa sforzi? Significa «pressioni dirette o indirette su tutte le parti coinvolte», spiega il nostro ministro degli Esteri. Significa creare le condizioni perché il governo libanese abbia il pieno monopolio sulla violenza legale, disarmando Hezbollah: un monopolio che richiederà l'assistenza di una forza multinazionale, ancora tutta da definire. L'accenno a pressioni dirette o indirette fa pensare che saranno contattati Iran e soprattutto Siria, puntando sulla sua diffidenza verso l'espansione sciita. E che saranno avvicinati gli stessi Hezbollah, tramite il presidente della Camera libanese Nabih Berri, che le milizie hanno scelto come portavoce e che appartiene al partito sciita moderato Amal. È interessante che proprio ieri Berri abbia dichiarato che una tregua è ottenibile, se l'Italia in qualità di mediatore faciliterà scambi di prigionieri. È l'ennesimo segno che gli europei pesano politicamente più di Washington, nel Medio Oriente in mutazione.
Le iniziative non sono dettagliate, è vero. Non è stato deciso chi potrebbe partecipare alla missione, quali saranno i suoi obiettivi e i suoi mezzi. Israele ha accettato per la prima volta una forza d'interposizione, ma avrebbe voluto la Nato e dell'Onu diffida. Quel che è avvenuto in Libano tra martedì e mercoledì è di cattivo augurio. Come ha spiegato Kofi Annan, l'artiglieria israeliana ha bombardato per un'intera giornata, dall'alba alla sera, una postazione di osservatori Onu uccidendone alla fine quattro, ben sapendo che erano disarmati e nonostante numerosissime telefonate tra Onu e Israele. Non è segno davvero di un buon rapporto fra Israele e Nazioni Unite, e l'ira di Annan non è astrusa.
Molte cose rimangono nel vago ma non stupisce che sia così. In realtà, le tortuose manovre in corso indicano che una grande partita è cominciata a Roma, che ha come centro la guerra in Libano e che si svolge tra Europa, Stati Uniti, regimi arabi. Nessuno lo dice a chiare lettere, ma quello di cui si discute è il futuro del Medio Oriente, ed è un riesame critico delle strategie fin qui adottate, e oggi periclitanti, per stabilizzarlo. Nessuno lo dice, ma in discussione è il metodo non nuovo di risposta al terrorismo, che Israele e Stati Uniti hanno in mente anche quando parlano di Nuovo Medio Oriente.
Si tratta di capire se abbia senso continuare a risolvere i problemi soltanto con le armi e non anche - da parte israeliana - con la politica, i negoziati diretti, il ritiro dalle terre occupate. Ritiro sempre dilazionato, nel Golan reclamato dalla Siria oltre che in Cisgiordania, e applicato a Gaza e in Libano senza trattative con la controparte, unilateralmente, lasciando aperte ferite e dando l'impressione che i territori non siano mai integralmente riconsegnati. Territori che sono vera spina nel corpo d'Israele, come ha scritto ieri su Repubblica lo scrittore David Grossman.
Si tratta poi di fare un bilancio della politica americana, che può rivolgersi solo ad alcuni stati sunniti e che per il resto vede un monolitico asse del male (terrorismo dell'Iran e corrività della Siria, Hezbollah e Hamas, Libano che non controlla le proprie frontiere e Gaza-Cisgiordania dove non riesce a nascere uno Stato palestinese). È la strategia unilaterale ed è quest'idea monolitica delle minacce che oggi si frantumano, in America come in Israele, e che hanno costretto Israele a una guerra ormai davvero esistenziale, non più legata solo ai territori. È l'abitudine unilaterale che ha occultato agli occhi di Israele le ferite non medicate in Libano: le fattorie di Shebaah che Israele tuttora occupa, le mappe indicanti la collocazione delle mine anti-uomo che Beirut chiede invano da sei anni, le migliaia di prigionieri libanesi in Israele, detenuti spesso senza ragione. Il premier libanese Siniora ha affermato a Roma che una delle scuse addotte da Hezbollah è la liberazione non ultimata del Libano. Anche a Gaza è così, ed è importante che d'Alema abbia prospettato un dispiegamento di forze multinazionali anche lungo quel confine, oggi gestito da Israele.
Condoleezza Rice ha convinto tutti, alla conferenza, che il cessate il fuoco non può tornare alla situazione di ieri. Che devono esser create le condizioni perché la tregua sia «durevole, sostenibile, permanente»; che sia insomma un inizio di pace. Il che vuol dire: Israele non deve essere minacciato nel suo territorio, e il governo libanese deve esercitare quella sovranità minima che consiste nel controllare l'intero proprio territorio. È un progresso che tutti a Roma abbiano condiviso questa premessa, anche gli arabi. Ma molto resta da fare, per restaurare quel minimo di sovranità. Siniora ha lasciato intendere che Hezbollah non è solo una milizia: è parte politica, ha parlamentari e ministri, ha alleati fra cristiani e in patria è visto come il liberatore del Libano.
Dice ancora il segretario di Stato Usa che quel che accade oggi in Libano è parte inevitabile delle «doglie del parto d'un Nuovo Medio Oriente». Quest'idea che nel sangue e nella guerra si possa temprare un mondo migliore è rivoluzionaria, e mortale. Ha avuto pessimi risultati nella storia passata e recente. Non senza compiacimento, il direttore del giornale libanese Daily Star, Rami Khouri, denuncia il fine che giustifica i mezzi (International Herald Tribune, 25-7), e ricorda che i dolori del parto hanno in realtà prodotto «caos, disintegrazione, morte: in Iraq, Palestina, Libano». E che forse non sono le doglie del parto quelle che abbiamo davanti ma «gli ultimi rantoli di un ordine fallito», che gli occidentali hanno creato e rischiano ancora una volta di creare in Medio Oriente.



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