BARBARA SPINELLI: LA TRAPPOLA DELLA PAURA

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INES TABUSSO
00domenica 26 marzo 2006 20:10
LA STAMPA
26 marzo 2006
VELENI ELETTORALI
La trappola della paura
Barbara Spinelli


La politica, quando c’è chi se ne serve per farla morire, si presenta in genere così: perde ogni senso la scelta fra candidati diversi, nella cabina dove si va a votare; svanisce la convinzione che un’alternativa agli attuali governanti sia praticabile; s’indebolisce fino a svanire l’idea che l’uomo sia per natura un animale politico, non un oggetto passivo di azioni e volontà altrui: azioni che l’intrappolano, gli tolgono il potere di decidere un futuro differente, l'inchiodano irrimediabilmente in un presente senza fine. A questo somiglia la campagna elettorale italiana, da quando è cominciata e sempre più col passare dei giorni. In questa strana guerra stiamo scivolando, questo è il significato dei toni singolarmente aggressivi, ultimativi, cui alcuni ricorrono. Il dramma è violento perché sulla scena si sta compiendo un sacrificio: l'uccisione della politica, impigliata nella trappola della paura.

Quando l'antipolitica prende in ostaggio la politica è la paura l'unica e apocalittica arma, brandita dai governanti nel tentativo di spegnere, in chi vota, il gusto di scegliere e cambiare. È un'arma che s'accompagna a grida battagliere, a volti contratti, e soprattutto a minacce, allusive o esplicite, intese a intimidire. Chi l'impugna non descrive né il passato né il futuro, ma costringe tutti a installarsi in un presente eternizzato. Qualsiasi cambiamento deve apparire agli occhi dell'elettore come un salto nel buio, dove non ci sono più sicurezze e il panico è re. La paura ci riduce a pavimento, a terra battuta dove niente più spunta: anche etimologicamente, paura e pavimento hanno la stessa radice.

La messa a morte della politica non è uno strumento nuovo in mano ai governanti, né l'Italia è la sola democrazia dove esso è adoperato come arma. Il presidente Bush ne ha fatto largo uso, e la sua dottrina della guerra preventiva è una macchina della paura che cattiva le menti prima ancora che il pericolo prenda corpo. Sarkozy in Francia fabbrica la propria carriera sul panico. Ma l'uso della paura in Italia è ossessivo, scredita più radicalmente che altrove il tessuto di cui la politica democratica è fatta: il libero conversare tra cittadini, la scelta non micidiale fra candidati discordanti, il responsabile conciliarsi fra interessi antagonisti. Ogni promessa di cambiamento, di alternativa, è presentata dai governanti come qualcosa che già ora crea caos. L'avversario è dipinto come impaurente perché già ora avrebbe un'enormità inaudita di poteri nelle sue mani, e chissà quanti ne avrà il giorno in cui vincesse. Il capo di Forza Italia non sembra avere altre strategie, se non quella - molto contraddittoria - di tutelare al tempo stesso il cittadino spaventato dall'alternanza e di render cronico il conflitto sociale che genera spavento. Più c'è conflitto, più c'è in giro paura, più io ci guadagno: questo pare il suo motto, e perfino i centristi della maggioranza cascano nella trappola quando giudicano scandaloso l'appello simultaneo di Prodi al senso di responsabilità dei sindacati come della Confindustria.

Di tutto c'è da aver paura, anche e specialmente di quel che non esiste. Sono anni che sugli italiani incombe il pericolo di un attentato letale, perpetrato da Al Qaeda e insonni cellule terroriste. Nel libro che hanno appena pubblicato, Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini descrivono sulla base di dati concreti la «pioggia acida» di tante false informazioni sulla nostra presunta vulnerabilità (Il mercato della paura, Einaudi 2006). Ma adesso è la bomba della sinistra che incombe: qualcosa che deve farci tremare, perché il mondo intero diverrà incerto e indifeso. Sono sotto assedio i nostri averi, i risparmi, la stessa nostra incolumità, insidiata da teppisti di sinistra che infiltreranno le istituzioni. Il Premier accusa la sinistra di «schierare squadristi violenti» e parla di «emergenza democratica», come fossimo ri-precipitati in epoche dove tanti hanno ragione di temere. In realtà, hanno da temere perché da lui personalmente minacciati.

Sono minacciati i giornalisti indisciplinati («Questo resterà come una macchia sulla sua carriera», sono le parole di un capo di governo che si è sentito troppo assillato in tv). Hanno da temere gli industriali fastidiosi (l'imprenditore che sostiene la sinistra «deve avere molti scheletri nell'armadio»). Le frasi allusive si tramutano in avvertimenti, ed è tale metamorfosi che fa della paura una spada.

Nei suoi saggi sulla cultura della paura, il sociologo Frank Furedi ha indagato su questo sentimento che finisce col divorare la politica e le alternanze democratiche. Il cittadino che vorrebbe provare governanti e progetti nuovi è ammonito e guardato con sospetto, la diffidenza colpisce la diversità e la passione che domina è la «sfiducia misantropica» nel cittadino e nelle sue scelte, imprevedibili in democrazia. Le inimicizie diventano assolute, soppiantano il conflitto addomesticato dall'abito democratico, e la politica stessa diventa qualcosa che non può cambiare più alcunché, e che lascia vivere solo le innumerevoli paure di cui si nutre: paura dell'aviaria o del cibo infetto o del terrorismo, paura delle manifestazioni violente e anche delle proteste ordinarie, in un'artefatta esasperata confusione di generi. La società si divide in gruppi, tutti vulnerabili ed egualmente infantilizzati, passivi: il risultato è la «degradazione della soggettività», il conformismo, il senso d'impotenza, l'abbassarsi delle aspettative (Frank Furedi,Politics of Fear - Politica della Paura, Continuum 2002). Anche la body politics, la gestualità dei politici, si adegua. Il presidente del Consiglio ha un modo assai particolare di palpare con mani e braccia chi gli sta vicino, quand'è ripreso dalle camere, come chi protegge un bambino terrorizzato.

L'Italia è stata spesso laboratorio di simili esperimenti, dove l'uso della paura conferisce una potenza straordinaria: una potenza forte quanto può esserlo la stupidità. L'idea di chi fa leva su tale passione è che il paese non possa e non debba mai uscire dai marasmi dagli ultimi decenni (anni di piombo, poi fine della prima repubblica e avvento del maggioritario, poi seconda repubblica, poi di nuovo - oggi - ritorno del regime partitico). Tutto è fermo, in un perenne presente; i comunisti sono i comunisti d'un tempo, i manifestanti di oggi sono i brigatisti di ieri. Il paese, permanentemente assediato dal massimalismo, necessiterebbe tuttora di uomini extra-politici che sospendano le abitudini dell'alternanza. La soluzione agognata è l'estremismo del centro, che abbia come compito di perpetuare la nostra anomalia democratica ed evitare troppo nette anche se prudenti alternative.

Inventato dal sociologo Seymour Lipset nel 1958, l'estremismo del centro nasce dalla cultura della paura. Gli estremisti del centro in apparenza sono moderati. In realtà giudicano la politica troppo malfida per esser lasciata ai politici, ritengono insuperabili le divisioni nella società, mirano a governare non con la concertazione ma per decreti. Questo centrismo dà il proprio sostanziale consenso alla morte della politica, ed è convinto che la democrazia richieda continui correttivi. Generalmente, in Italia, ritiene che il politico debba essere affiancato da uomini ostentatamente estranei alla politica, e per questo sospetta Prodi e le alternanze limpide. Anche Prodi, come Berlusconi nel 2001 quando gli venne affiancato Ruggiero come ministro degli Esteri, avrà bisogno d'esser legittimato da ministri di garanzia - dunque da tutori, esterni al centrosinistra - grazie ai quali politica e democrazia resteranno non normalizzabili, in stato d'emergenza. Prodi secondo alcuni ha un'opportunità solo a queste condizioni: che sia invigilato dalle diffidenti misantropie del centrismo a-politico.

Così l'Italia rischia di proseguire il suo viaggio, interminabile e infruttuoso, dall'anomalia alla normalità dell'alternanza. I giornalisti ne profittano e ci nuotano dentro compiaciuti, perché rimangono nel Palazzo dei partiti senza mai vedere quel che la società pensa davvero. La paura s'infila nei più svariati interstizi e tutti aspettano Godot, cioè la grande conflagrazione conclusiva. La conflagrazione non verrà, il paese non è dominato dal terrore e una campagna elettorale meno brutale è possibile: il presidente Ciampi lo ha constatato con parole gravi, due giorni fa. È anzi probabile che i barbari alla fine non vengano, come nella poesia di Kavafis, per il semplice motivo che quelli che verranno non sono barbari. Per chi specula sulla paura è un peccato, perché i barbari erano per lui la soluzione, non il problema. Nel mercato della paura, i volti si fanno ansiosi e tutti smarriti, se la fiaba menzognera sugli eversori alle porte viene d'improvviso molto serenamente sfatata.


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