La vittima più famosa d'Italia

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Slobodan
00venerdì 6 gennaio 2006 15:47

Come e perché il corpo di un soldato preso da un piccolo cimitero alpino divenne «il Milite ignoto», e l'orrenda carneficina della Grande Guerra un oggetto di memoria perenne


Alla fine del novembre 1918, su tutti i fronti di guerra non si sparava più. Era terminata la prima grande carneficina dell'era moderna, che nel 1914 aveva dato inizio a quello che lo storico inglese Hobsbawm avrebbe definito il secolo breve. I paesi dell'Intesa e gli Imperi centrali in quattro anni di mattanza avevano mobilitato complessivamente oltre 65 milioni di uomini, di cui otto milioni e mezzo morirono, ben 21 milioni vennero feriti o mutilati, quasi otto milioni presi prigionieri o dispersi. Il 58 per cento dei mobilitati era rimasto vittima della prima guerra mondiale, quella che papa Benedetto XV definì in conclusione, parlando da pacifista convinto, «l'orrenda carneficina che disonora l'Europa», un mondo «fatto ospedale e ossario», «il suicidio dell'Europa civile» e «la più fosca tragedia dell'odio umano e dell'umana demenza». Terminata l'esultanza propagandistica per la vittoria - che all'Italia era costata 650mila morti, quasi un milione di mutilati e feriti, 300mila prigionieri, centinaia di migliaia di sbandati - si cominciò a fare i conti con il quotidiano, con tutti quei morti, spesso sepolti senza un nome, che erano andati in forma di polvere a ricoprire di un velo sempre più lieve il tramonto del Mondo di ieri.

Come sempre furono le donne a reagire. Le madri, le spose, le fidanzate, le ragazze di quei milioni di caduti si diedero alla pietosa memoria dei morti. Un sentimento fortissimo, che per parecchio tempo mise quasi in seconda linea, nell'opinione pubblica, la deriva autoritaria che stava spingendo verso il fascismo - organizzato in partito a Milano nel 1920 - gli sbandati e coloro che non volevano accettare quella che D'Annunzio aveva definito la «vittoria mutilata». Tra la fine del 1918 e il 1921 fu la pietosa memoria dei morti a diffondersi, grazie alle madri e alle spose, in tutt'Italia, dando luogo fin nei paesi più piccoli e remoti alla costruzione di monumenti ai caduti, statue, targhe che ricordavano il sacrificio di chi era morto in guerra. Grazie alle donne d'Europa si passò in quegli anni dall'esaltazione della guerra e della vittoria al ricordo dei caduti, vedendo la guerra come una tragedia collettiva che univa vincitori e vinti. Di questo sentimento così umano si impossessarono però ben presto le gerarchie militari e i governi e nacque così la mitizzazione dei caduti per la vittoria e per la patria.



Il von Clausewitz italiano

In Italia il primo a muoversi fu il colonnello Giulio Douhet (che negli anni sarebbe stato chiamato il «von Clausewitz dell'aviazione italiana», per aver sostenuto che le guerre si vincono con il dominio dell'aria) che già nell'agosto del 1920 propose al governo e alle massime autorità militari di onorare solennemente un soldato caduto senza nome, affinché rappresentasse tutti i caduti, su tutti i fronti.

La proposta , a quanto si sa, non fu molto gradita dallo Stato maggiore del regio esercito perché sostanzialmente, se realizzata, avrebbe capovolto il concetto risorgimentale e sabaudo dell'unità d'Italia ottenuta per opera dei capi e sovrani, e non grazie ai soldati che avevano combattuto. C'era poi il fatto che venivano attribuite gloria e ricordo non più al condottiero ma addirittura a un soldato qualunque, di cui non si conosceva né il valore, né il nome.

La proposta di Douhet andò invece molto a genio ai socialisti. Sull'Avanti! si scrisse che «il milite ignoto era certamente un figlio del popolo, un proletario» e che tutti avrebbero dovuto rendergli omaggio senza che questo risultasse in una esaltazione della guerra. «Onoratelo maledicendo la guerra», concludeva l'anonimo articolista.

Governo e Stato maggiore tergiversarono per quasi un anno. Intanto altri paesi fecero propria la proposta di Douhet di rendere omaggio a un caduto ignoto. E già nello stesso 1920 la Francia inumò con solenni onoranze le spoglie del primo Milite ignoto nell'ara sotto l'Arco di Trionfo. Altri paesi seguirono a ruota. L'Italia arrivò buona ultima, con l'approvazione dell'idea di Douhet nell'agosto 1921.

Per recuperare il ritardo, il Regio esercito non badò a spese e mezzi, sguinzagliando 6000 soldati, 150 ufficiali, 35 cappellani militari per battere passo a passo tutto l'arco alpino per dare sepoltura ai caduti, sommariamente tumulati nei campi di guerra. Ci furono oltre 200mila tumulazioni, di cui oltre duemila di militari ignoti.

Intanto a Roma le alte sfere decisero il luogo dove avrebbe riposato il simbolo dell'ignoto caduto per la patria, che avrebbe rappresentato tutti i 670mila morti italiani della guerra: l'Altare della Patria, ai piedi della dea Roma. Fu anche deciso che sarebbero state scelte undici spoglie in tutti i luoghi dove si era combattuto tra il '15 e il '18. Già negli anni di guerra la maggior parte dei caduti era stata trasportata nelle retrovie. Là erano nati i primi cimiteri, con paletti e croci con i nomi incisi direttamente dai commilitoni dei caduti. In tanti villaggi alpini le popolazioni ottennero la custodia dei piccoli cimiteri militari, per i quali promisero sempiterna cura. Dalle Alpi al mare, per centinaia di chilometri, una miriade di piccoli cimiteri raccoglieva i resti delle centinaia di migliaia di soldati italiani caduti.

Fu designata la commissione per la scelta del Milite ignoto, costituita da un generale, un colonnello, un tenente mutilato e un sergente decorati di medaglia d'oro, da un caporale maggiore e un soldato semplice decorati di medaglia d'argento. Tutto l'esercito era rappresentato. La commissione partì dallo Stelvio per scegliere una salma per ciascuna delle zone dove si era combattuto: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele e da Castagnevizza fino al mare, in rappresentanza dei caduti dei reparti da sbarco della Marina. Le salme ignote furono raccolte in campi speciali e distinte da un numero. I foglietti venivano mescolati e un membro della commissione ne estraeva uno. Se durante la dissepoltura appariva un elemento che potesse portare all'identificazione, anche parziale del caduto, le spoglie venivano risotterrate. Il compito si concluse nella zona del Carso e del fiume Timavo.

I resti degli undici sconosciuti furono dapprima trasportati a Udine, in bare avvolte nella bandiera e poste su affusti di cannone. Al loro passaggio assistevano migliaia di madri e vedove in lacrime, mentre la popolazione gettava fiori. I feretri furono poi portati a Gorizia nella chiesa di Sant'Ignazio, devastata dalle bombe, dove ricevettero per otto giorni, giorno e notte, l'omaggio commosso dei goriziani. Il 26 ottobre il corteo mosse alla volta di Aquileia. Il 27 ottobre le salme raggiunsero la basilica di quella città, accolte dalla canzone del Piave intonata dagli alunni delle scuole elementari. Portate in cattedrale da madri di caduti, da combattenti e mutilati, le bare, identiche, furono anche scambiate di posto per attribuire la scelta solo al caso e alla mano di una madre che aveva perso il figlio in guerra, senza sapere dove fosse sepolto.



Una madre repubblicana

Simbolicamente fu scelta una donna di Trieste - anche se nata a Gradisca d'Isonzo. Si chiamava Maria Bergamas, repubblicana madre di un volontario repubblicano, Antonio, che aveva disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto il 18 giugno 1916 sul monte Cimone senza che il suo corpo fosse più ritrovato. Secondo testimonianze dell'epoca, davanti alla prima bara Maria Bergamas ebbe un mancamento e fu sorretta dalle quattro medaglie d'oro che l'accompagnavano nella scelta. Davanti alla seconda bara, ripresasi, alzò il braccio e vi depose il suo velo nero da lutto. Il Milite Ignoto era stato scelto. La bara di legno di quercia fu messa sull'affusto di un cannone trainato da cavalli e poi su un vagone ferroviario su cui campeggiavano le parole di Dante: «l'ombra sua torna che era dipartita».

Il 4 novembre 1921, contemporaneamente all'inumazione del Milite ignoto nel sacello sotto l'Altare della Patria a Roma, ad Aquileia le rimanenti 10 bare furono tumulate nel piccolo cimitero retrostante la Basilica. Sull'altare allestito in seguito fu scolpita la scritta: «Dieci Militi Ignoti». Un grande arco, sovrastante l'altare, reca ancora oggi la scritta «Omnes isti in generationibus gloriam adepti sunt - Tutti costoro hanno meritato la gloria delle generazioni».

Il 4 novembre 1954 le spoglie di Maria Bergamas vennero tumulate a fianco di quelle dei Militi ignoti. Fu quella l'ultima sepoltura avvenuta in quel Cimitero.



Viaggio trionfale di una bara

Il treno con le spoglie del Milite ignoto partì da Aquileia e si diresse verso Roma, passando per Venezia, Bologna, Firenze, tra due ali di gente di ogni fede politica e religiosa. Giunto a Roma, il Milite ignoto venne calato dal carro funebre e 12 medaglie d'oro trasportarono la salma su un affusto di cannone scortandola fino alla basilica di Santa Maria degli Angeli. I romani per giorni visitarono la salma e all'Altare della Patria vennero deposte 1500 corone giunte da tutte le città del paese. Il 4 novembre quasi un milione di persone seguì il corteo lungo via Nazionale fino a piazza Venezia. Alle dieci le campane suonarono e le salve dei cannoni da Monte Mario e dal Gianicolo accompagnarono il feretro sulla scalinata del monumento. Il re baciò la medaglia d'oro, fissata sul feretro con un martello anch'esso d'oro, e la targa: «Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria». Un soldato semplice pose sulla bara un elmetto da fante, e la vittima-simbolo della grande carneficina venne infine tumulata nel sacello posto sotto l'Altare della Patria. Da quel momento una fiamma viene fatta ardere in permanenza davanti all'ara e due militari dei vari corpi armati, a turno, montano la guardia. Nessuno saprà mai a chi appartiene il corpo del Milite ignoto, né da dove viene. La leggenda dice che Vittorio Emanuele III, a cerimonia conclusa, abbia chiesto al tenente degli arditi Augusto Tognasso, unico a saperlo, da quale campo di combattimento arrivasse il corpo di quel soldato: senza ottenere risposta.

Matteo Moder


zobmie
00venerdì 6 gennaio 2006 17:28
"""
La guerra non ha più alcuna funzioe da compiere e perciò va sparendo; anzi è già morta e sopravvive solo nella immaginazione degli uomini, troppo lenta a seguire i rapidi rivolgimenti delle cose.
"""
Così scriveva Guglielmo Ferrero nel 1898 nella prefazione del suo ponderoso libro Il Militarismo (che ho appena acquistato per pochi euro).
Diceva cose giustissime eppure si sbagliava.
gugliandalf
00domenica 8 gennaio 2006 03:49
La mattina del cinque di Agosto
si muovevano le truppe italiane
per Gorizia e le terre lontane
e in quell'ora ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavano le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli nei letti di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate "il campo d'onore"
questa terra al di là dei confini
qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col tuo nome nel cuor

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente cosienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per tutti non fu
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