PINOCCHIO (14 - 16) di Carlo Collodi

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vanni-merlin
00mercoledì 24 giugno 2009 14:01
XIV.

Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s’imbatte negli assassini.




— Davvero — disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andar fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!» A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non volere scappare, allora scapperei io, e cosí la farei finita... —

Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscío di foglie.

Si voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.

— Eccoli davvero! — disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.

Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancora fatto il primo passo, che sentí agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero:


— O la borsa o la vita! —

Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime, per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.

— Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! — gridarono minacciosamente i due briganti.

E il burattino fece col capo e colle mani un segno, come dire: «Non ne ho».

— Metti fuori i denari o sei morto — disse l’assassino piú alto di statura.

— Morto! — ripeté l’altro.

— E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!

— Anche tuo padre!

— No, no, no, il mio povero babbo no! — gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare cosí, gli zecchini gli sonarono in bocca.

— Ah furfante! dunque i danari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito! —

E Pinocchio, duro!

— Ah! tu fai il sordo? Aspetta un po’, ché penseremo noi a farteli sputare! —

Difatti uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lí cominciarono a tirare screanzatamente uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.

Allora l’assassino piú piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua meraviglia quando, invece di una mano, si accòrse di avere sputato in terra uno zampetto di gatto.

Incoraggito da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini, e saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come facesse.

Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva piú. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.

Non per questo si dettero per vinti: ché anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare come una candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre piú e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.

Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!... cascarono giú nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentí il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:

— Buon bagno, signori assassini! —

E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua come due panieri sfondati.



XV.

Gli assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto,

lo impiccano a un ramo della Quercia grande.




Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando, nel girare gli occhi all’intorno, vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve.

— Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo! — disse dentro di sé.

E senza indugiare un minuto, riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.

Dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente, tutto trafelato, arrivò alla porta di quella casina e bussò.

Nessuno rispose.

Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de’ suoi persecutori. Lo stesso silenzio.

Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

— In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.

— Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

— Sono morta anch’io.

— Morta? e allora che cosa fai cosí alla finestra?

— Aspetto la bara che venga a portarmi via. —

Appena detto cosí, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.

— O bella Bambina dai capelli turchini, — gridava Pinocchio — aprimi per carità. Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass... —

Ma non poté finir la parola, perché sentí afferrarsi per il collo, e le solite due vociacce che gli brontolarono minacciosamente:

— Ora non ci scappi piú! —

Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un tremito cosí forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.

— Dunque? — gli domandarono gli assassini — vuoi aprirla la bocca, sí o no? Ah! non rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!... —

E cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff e zaff..., gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.

Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.

— Ho capito — disse allora un di loro — bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!

— Impicchiamolo! — ripeté l’altro.

Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle, e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.

Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava piú che mai.

Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:

— Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata. —

E se ne andarono.


Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio d’una campana che suona a festa. E quel dondolío gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre piú alla gola, gli toglieva il respiro.

A poco a poco gli occhi gli si appannarono; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo... e balbettò quasi moribondo:

— Oh babbo mio! se tu fossi qui!... —

E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprí la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lí come intirizzito.





XVI.

La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino:

lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.




In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai piú morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.

A questo segnale si sentí un gran rumore di ali che volavano con foga precipitosa, e un grosso Falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.

— Che cosa comandate, mia graziosa Fata? — disse il Falco abbassando il becco in atto di riverenza (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli turchini non era altro in fin dei conti che una buonissima Fata, che da piú di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco).

— Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande?

— Lo vedo.

— Orbene: vola subito laggiú; rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria, e posalo delicatamente sdraiato sull’erba, a piè della Quercia. —

Il Falco volò via e dopo due minuti tornò, dicendo:

— Quel che mi avete comandato, è fatto.

— E come l’hai trovato? Vivo o morto?

— A vederlo pareva morto, ma non dev’essere ancora morto perbene, perché appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: «Ora mi sento meglio!...» —

Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e quale come se fosse un uomo.

Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in capo un nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giú per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi gli ossi, che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzon corti di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi dentro la coda, quando il tempo cominciava a piovere.

— Su da bravo, Medoro! — disse la Fata al Can-barbone. — Fa’ subito attaccare la piú bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito? —

Il Can-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partí come un barbero.

Di lí a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell’interno di panna montata e di crema coi savoiardi. La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi.

Non era ancora passato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò e la Fata, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a chiamare i medici piú famosi del vicinato.

E i medici arrivarono subito uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.

— Vorrei sapere da lor signori — disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio — vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia vivo o morto!... —

A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:

— A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!

— Mi dispiace — disse la Civetta — di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero.

— E lei non dice nulla? — domandò la Fata al Grillo-parlante.

— Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lí, non m’è fisionomia nuova: io lo conosco da un pezzo! —

Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.

— Quel burattino lí — seguitò a dire il Grillo-parlante — è una birba matricolata... —

Pinocchio aprí gli occhi e li richiuse subito.

— È un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo... —

Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli.

— Quel burattino lí è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!... —

A questo punto si sentí nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accòrsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio.

— Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione — disse solennemente il Corvo.

— Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega — soggiunse la Civetta — ma per me quando il morto piange, è segno che gli dispiace a morire. —


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