UN VEDOVO di Alberto Cantoni

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
vanni-merlin
00venerdì 16 giugno 2006 00:38
UN VEDOVO



Nei villaggi, dove Dio non può essere pregato che in un unico luogo, e dove si urtano in breve spazio le gioie, gli affetti ed i dolori di pochissima gente, si combinano talvolta certe scene, le quali aggiungono rilievo ai comuni eventi della vita umana. Altrove, mercè l’ampiezza dei luoghi e il maggior numero degli uomini, si possono certo separare meglio i casi lieti di una famiglia da quelli mestissimi dell’altra, ma che cosa importa? Forse che l’antica e disuguale vicenda del dolore e della gioia perde per questo della sua frequenza? Dunque, se deve andar così in tutti i modi, meglio forse vale che il contrasto sia vicino ed evidentissimo. Ne possiamo profittare tutti.

Un buon operaio di una piccola terra lombarda aveva accompagnato all’ultima Messa il caro corpo della povera sua moglie, che malata di tisi e morentegli sotto gli occhi il giorno innanzi, lo prendea per mano, e gli diceva:

— Tu che lavori non puoi aver cura dei nostri bambini, i quali, così abbandonati, resterebbero forse lungo le strade come figli di nessuno; tròvati adunque una buona persona, e sposala, e vuoi bene ai suoi figli senza far differenze in favore dei miei. Così essa non diventerà gelosa degli orfani che lascio dietro di me, e vorrà un po’ di bene anche a loro. Bada di non chiederle tutto quello che si può pretendere da una madre vera; raccomandale soltanto di vedere di buon occhio le mie creature, e ricordale spesso che c’è una madre, la quale prega per lei affinchè le sia risparmiato il grandissimo dolore che provo io in questo momento. Io che lascio in terra degli innocenti, i quali avrebbero ancora tanto bisogno di me. —

Ed era morta quasi subito, coll’anima più viva che mai, senza dolore e senza agonia. Meglio forse gli spasimi occasionati da molte altre malattie, che almeno tolgono od affievoliscono il conoscimento dei moribondi.

La Messa funebre era già terminata da qualche tempo, e le tessitrici del villaggio, compagne di mestiere della donna defunta, erano escite di chiesa in cerca dei loro mariti, i quali, per pietosa costumanza, dovevano portare la salma all’ultima dimora. E il vedovo, ginocchioni, stava fermo a pregare al suo posto.

Pregava il pover’uomo, ed era assai lieto che tardassero gli altri, e non si sarebbe mosso di dove era, nemmeno se ce lo avessero lasciato sa Dio fin quando.

— Benedetta la tua anima, povera Nina, e che nostro Signore ti rimeriti della buona compagnia che mi hai fatta quando eri viva, e delle sante memorie che mi lasci ora che sei morta. Sta pure in pace dove ti ritrovi. Io darò sempre il buon esempio ai tuoi figli e procurerò, con ogni sforzo possibile, che non ti facciano mai disonore. Abbi in mente anche tu il tuo povero uomo, e parlami spesso nel cuore come mi parli adesso, che quasi mi fa illusione, e giurerei di sentirti rispondere che anche tu sei stata contenta di me. —

Caste ed affettuose parole che rendevano assai bene, senza che egli vi ponesse mente, la calma tranquilla e rassegnata della sua buona coscienza. Ma un suono improvviso e che in sulle prime non seppe spiegare, lo fece bruscamente ritornare in se stesso. Le campane sopra la sua testa suonavano a matrimonio, ed egli, guardatosi intorno, vide che i quattro uomini si erano finalmente riuniti, e che si accingevano ad alzare la bara, mentre le donne, quale pregando, quale piangendo, si preparavano a seguirla.

Fece anch’egli un ultimo segno di croce, e giunto cogli altri fuor della porta, guardò agli sposi che attendevano in distanza, e disse fra sé:

— Mi ricordo benissimo che quando ci siamo sposati noi due, non erano stati morti in chiesa da parecchi giorni, ed io l’ho preso per un buon augurio! Quei poveri ragazzi che aspettano, saranno certo poco contenti di trovarmi ancora qui colla mia comitiva, ed ora invece la povera Nina guarderà forse la sposa dal cielo e le porterà fortuna. Dio lo voglia pure. Guai al mondo se tutti dovessero essere così disgraziati come sono stato io! —

Mezz’ora dopo, quando il vedovo poneva piede nella desolata sua casa, il villaggio era quasi tutto in festa intorno agli sposi, ed echeggiavano lungamente per l’aria gli spari dei mortaretti, e le festose canzoni degli invitati.

— È sempre il medesimo frastuono! — pensò fra di sè il buon operaio, che gli amici avevano lasciato solo per ritornare al lavoro, o per accorrere, quantunque in ritardo, a complimentare gli sposi. — Mi pare adesso quando la povera Nina, ritornando di chiesa, mi disse in un orecchio: “Sono così contenta, che se non facessero questo gran rumore ci avrei più gusto!” Me lo sono tenuto a mente ed ho procurato di volerle bene nel modo calmo e tranquillo che piaceva a lei, senza passare, come fanno molti altri, dalle grandi smanie del principio agli sgarbi ed alle cattive maniere di poi. Ma nostro Signore avrà le sue buone ragioni per non volere nessuno contento. —

Un bel bambino di cinque anni, che era intanto disceso in punta di piedi da una scaletta di legno, lo prese in quel momento per il vestito, e gli disse a bassa voce:

— Bada, papà, che Gigino si muove e pare che si svegli. Debbo provare a vestirlo io?

— Tu lo vuoi vestire? — sclamò il pover’uomo che si era chinato a stringere fra mani e labbra la bionda testa dell’orfano.

— Sì, son capace, vedrai. È tardi ora, e come ho fame io, avrà certo fame anche lui.

— Ma io non ho ancora potuto prepararvi da mangiare.

— No? Spicciati allora. Che se egli discende e non ritrova la polenta fatta, si mette a piangere e dà noia alla mamma. È cattivo Gigino quando ha fame, non lo sai?

— Va, — disse il padre che si sentiva come venir freddo, — va e procura di toglierti d’impiccio da quel bravo bambino che sei. —

Quando questi discese tenendo per mano il suo fratellino che appena si reggeva sulle gambe, la polenta era fatta, ed il padre, rasserenato dalla non lieve fatica, si sentiva già un pochino riavere. Levò su di terra i suoi figliuoli, li pose a sedere, e poi, chinatosi a baciarli mentre mangiavano, disse fra sé:

— Non lo sa il Signore che ci siamo anche noi al mondo? Dunque ci aiuterà. Ne ha aiutati tanti. —

E rimase lì fermo a guardare i suoi bambini, come se quella vista gli avesse fatto entrare una nuova anima in petto. Pensava fra sè in che modo avrebbe potuto metterli a parte della loro sventura, quando essi, dopo di aver mangiato, si avviarono per abitudine verso la camera della povera morta. Ma il letto era vuoto. Tornarono subito indietro, ed il maggiore chiese:

— Dov’è la mamma?

— È andata in un luogo dove sta meglio di qui, e verrà il giorno che la torneremo a vedere, se saremo così buoni come è stata buona lei.

— Mi sarebbe piaciuto che mi salutasse prima di andare.

— Non ti ricordi ieri quanti baci ti ha dato? Erano gli ultimi, ed essa lo sapeva, ma non ti ha detto niente, perchè tu sei piccino ed avresti potuto credere che andasse via per non volerci bene. Fu il Signore che la chiamò con sè, e noi che sappiamo come tribolava, dobbiamo esserne contenti. —

Aveva un bel dire. Ma egli intanto si asciugava gli occhi da una parte, ed il bambino piangeva a dirotto dall’altra; nè si sarebbe quietato così presto se due buone donne, reduci dallo sposalizio, non fossero venute a dividere, con lui e con Gigino, le loro piccole porzioni di torta.

Vi faccia pro, buona gente!
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 22:33.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com