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IL FOGLIO
23 dicembre 2005


D’Alema la pianti di piangere miseria
Imbarazzato, assediato, si finge pioniere del socialismo e spaccia bellurie sul rapporto tra soldi e potere

D’Alema è in cocente imbarazzo, quel conto Bpl è un incidente
banale e penoso, la barca troppo lunga è una gaffe a tormentone,
è viva la paura dell’incomprensione da parte della base e
dell’apparato postcomunista educati alla demagogia moraleggiante,
e anche nel vertice del partito e del sindacato e delle cooperative
non tutti saranno sempre disponibili a immolarsi per lui,
per la sua strafottenza. La strumentalizzazione dell’avversario è
dietro l’angolo, i grandi giornali e l’establishment economico e finanziario
non sopportano il potere di chi cerca di rendersi autonomo
dai quattrini veri mettendo o tenendo insieme soldi e politica
(come Craxi, come Berlusconi, come Schröder, come Blair, come
Gonzalez, come Strauss-Kahn, come tutti in Europa). Grandi
ambizioni istituzionali coltivate per il dopo-elezioni si dissolvono
nell’aura di scandalo, gli alleati infidi (compreso Giuliano Amato)
profittano della situazione e sermoneggiano e manovrano e proteggono
pelosamente, Romano Prodi se la gode parecchio, Francesco
Cossiga ci scherza su con la sua emerita irresponsabilità. L’esposizione
estiva a fianco dei banchieri del popolo di sinistra, Consorte
& Sacchetti, è stata devastante anche se obbligata. Ora quei
conti a reddito predeterminato, le stock option dei poveri, diciamo,
sono un casino. Ora i pm si vanno a riguardare perfino le carte
dell’opa Telecom del ’99, quando la “merchant bank” di Palazzo
Chigi e di Pierluigi Bersani sfidò i Guido Rossi e compagnia finanziaria
alta di gamma con i capitani coraggiosi e gli stessi personaggi
e quartierini della triplice scalata di questa estate (compreso
l’oggi dannato Fazio, I presume), e ne ricevette in cambio
quel bel nomignolo. E’ la solita sindrome dell’outsider in trappola,
pussa via, lasciaci lavorare, non toccare il caveau, giù le mani dalla
legge Cuccia che attribuisce i ruoli e distribuisce le parti.
D’accordo: solidarizziamo, lo abbiamo già fatto e subito, prima
ancora del guaio grosso, possiamo permettercelo perché non siamo
andati appresso agli sgherri di D’Alema quando azionavano la
gogna contro i nemici, e solidarizziamo in modo meno peloso di
quel cappionista di Castelli, ministro della giustizia per gli altri.
Sappiamo anche decrittare la goliardia maligna con cui Pierlugi
Battista nel Corriere [1] finge di difendere il presidente dei Ds e gli
morde il calcagno, mentre in Transatlantico scoppia la rissa tra i
deputati dalemiani rabbiosi e i cronisti del giornale di via Solferino,
già querelati e banditi dall’entourage del baffino di ferro.
D’Alema lo sa: ci è sempre per principio simpatico chi in questo
paese scende in politica per limitare il potere dei magistrati e dei
ricchi e dei proprietari di giornale, che sono sempre unanimi anzi
un sol uomo quando c’è da picchiare, quando è in ballo una tessera
n°1 di qualcosa di grasso e promettente, magari il partito democratico.
Per difendere questa nostra predilezione per la politica
e per la sua funzione in democrazia siamo addirittura diventati
berlusconiani, e non ce ne pentiamo affatto e lo rimarremo fino
alla fine (con un sospetto: la fine è già alle nostre spalle).
Ma non si azzardi, D’Alema, a prenderci in giro con quelle lettere
all’Unità dal titolo “mi spiano e mi minacciano”. La smetta di
dire che non sopporta paragoni con quelli della destra, che la destra
lo attacca per sordidi scopi politici, che il partito e i militanti
devono reagire come reagivano quando il settimanale fascista-qualunquista
“Il Borghese” se la prendeva con le ville dei “papponi
rossi”, con la residenza della Iotti, con i gioielli di Marisa Rodano,
vicepresidente comunista della Camera e membro di una ricca famiglia
cattolico-comunista, con l’isoletta piana del compianto Enrico
Berlinguer, lo scoglio affiorante davanti a Stintino. Siamo anche
noi lettori dell’Unità, e dagli anni Cinquanta, da quando eravamo
piccoli, ma quella condizione non è un certificato di analfabetismo
storico, politico e culturale. Siamo della scuola di Antonello
Trombadori, che al compagnuccio ingenuo infuriato per i lussi
della casa di Togliatti a Montesacro, rispondeva spavaldo: “Ma
Togliatti che cos’è? E’ un tesoro per la classe operaia. E un tesoro
dove lo metti, compagno? In uno scrigno, no?”. Anche D’Alema è
un tesoro per la classe operaia, diciamo, solo che molto è cambiato
da allora, e D’Alema non deve permettersi di usare un linguaggio
antichizzato come certi specchi dei rigattieri di serie B, deve
riconoscere la realtà se vuole la lealtà di chi lo circonda, e perfino
di chi lo avversa ma non confonde politica, gogna e manette.
A parte il fattore gusto, cioè come spendi i soldi del tuo salario;
a parte i profili personali e i caratteri o lo stile, elementi spesso
decisivi: è vero che in termini di sistema e di cultura la corruttibilità
è liberale, l’incorruttibilità è rivoluzionaria, giacobina. Anche
i nostri amici Miriam Mafai e Emanuele Macaluso, con D’Alema al
loro seguito, dovrebbero riflettere su dati di fatto di un’evidenza
solare. La sobrietà e il pauperismo del funzionario comunista vecchia
maniera esprimono una visione totalizzante della vita, il primato
del partito e dell’ideologia, di un progetto di stato e di società
perfetti, emancipati da qualsivoglia forma di subordinazione dell’uomo
all’uomo, redenti dal dio della forza e del denaro, dallo
scambio stercorario di oggetti e merci al posto del loro valore d’uso.
Pauperismo ed egualitarismo sono pressappoco sinonimi e significano,
indicano un punto di contatto religioso tra l’esperienza
comunista e quella di altri monoteismi (con la differenza che il dio
di questa terra è fallito clamorosamente, gli altri no o non ancora
perché hanno basi meno avventizie, più solide, letterature e narrative
più affascinanti e tenaci lungo i millenni). La stanzetta di
Pajetta è tutta in questi concetti. La stanzetta dei vecchi coperatori
che passavano dalla coop al partito e viceversa è tutta in questi
concetti. Liberali, socialisti all’antica e democratici di ogni risma
possono essere onesti personalmente, nel senso di rigorosi e osservanti
delle regole, ma il loro problema non è l’uomo nuovo o
una nuova società, bensì la correzione graduale e disincantata del
presente, con le armi dello stato di diritto e nella consapevolezza
che gli interessi fanno il mercato, e la regola li addomestica ma
non li espropria, anzi li fa valere in un confronto che determina
sviluppo e squilibri e differenze sociali accettate.
La pianti, D’Alema, di civettare con la sua vecchia immagine di
pioniere del socialismo. Riconosca che il partito ha bisogno di una
banca amica, punto. Che per avere una banca amica ci si allea con
quel gentiluomo ingenuo di Fazio, salvo tradirlo dolcemente, passo
a passo, sotto l’incalzare degli eventi, e anche con i furbetti vari
e pasticcioni vari dell’antisistema. Che per avere una banca amica,
e sottrarla a nemici e alleati-rivali, si è disposti anche a convergere
con il Cav., con i suoi advisor, con le sue furbate simpatiche e disinvolte
e con le sue insoddisfazioni verso i grandi giornali, originate
dalla comune sensazione craxo-dalemiana-berlusconiana di
un’aggressione sistematica all’autonomia della politica. Che l’appoggio
governativo alla scalata Telecom dei centomila miliardi di
vecchie lire era uno scambio di potere fruttuoso di un presidente
del Consiglio che intendeva comandare nel salotto buono o sul salotto
buono della finanza e dell’industria. Non faccia il craxiano
grintoso che odia i giornali e non li legge e li querela addrittura,
ma con le cautele, le distinzioni, gli atteggiamenti da demi-vierge
per cui noi dobbiamo credere che i quattrini di sinistra non sono
quattrini, la minchia dei Lanza non è minchia, e gli alberi
in carbonio sono alberi di Natale. Buon Natale.





QUINTA COLONNA
Un dì il conte Max avrà giustizia
a sinistra, ma inizi a dare i nomi
giusti alle cose. Basta Ikarus

Un giorno pure Massimo D’Alema avrà
giustizia, e tutti i patimenti per l’Ikarus
saranno ricordo delle lotte passate e monito
per le conquiste sociali che verranno. Meglio,
per dire, della corazzata Potemkin. Come
Fra’ Cristoforo, pensa D’Alema che “giorno
verrà”. Nell’attesa, sarebbe utile, per i dirigenti
della sinistra che sarà (forse) tra poco
governativa, un rapido ripasso su come,
avendo i soldi (e avere i soldi è una meraviglia,
ché come diceva Nero Wolfe non averne
“non è una vergogna, ma una sciagura”),
questi soldi vadano convenientemente spesi.
Sennò si finisce, di barca in barchetta, per attraccare
in Costa Smeralda a cena al Billionaire.
Dunque, la barca, pur rimembrando
dalemianamente i compagni velisti del passato,
meglio di no. Perché nell’immaginario
più che telecronaca su La7 potrebbe fare,
diononvoglia, Cesare Previti sul Barbarossa.
Dunque, casomai spendere per un casale in
Umbria, pure con la piscina, che non sconvolge
il militante. La piscina, ormai, è un dato
acquisito al sentire democratico: non si
ostenta, non si nega. Tutti i soldi hanno la
stessa consistenza, ma non lo stesso effetto.
Così, se il compagno dirigente compra un
tappeto, che sia un Kilim – fa molto solidarietà
con il popolo sawari – e non un Nain,
più adatto ad accompagnare il mobilio rococò
di un dirigente di Confcommercio. Le
cravatte, ecco, le cravatte. Una volta, quelle
di D’Alema erano – come ha autorevolmente
rammentato Anna La Rosa – “scialbe”, adesso
sono corpose, vaporose, nodose. Ma Marinella,
illustre impresa napoletana, è smerciata
a piene mani dal Cav., e quindi il dirigente
di sinistra avveduto prenda esempio
da Bertinotti e si orienti verso le De Clercq:
mica costano meno, ma è più facile vederle
nei salotti più decentemente posizionati.
Certe cose sono così e non si sa perché. Perciò
la barca giammai, ma un Guttuso (a trovarne,
signora mia) sì, che da solo costa più
dell’albero in carbonio (come cantava De
Andrè, sfottendo i progressisti del ’68, “il
Guttuso ancora da autenticare”). D’Alema in
fondo mostra ciò che per tutte le masse auspica.
Forse solo con ingenuità. Così, se il cagnetto
di Reichlin ti assalta le scarpe e non
puoi mollare una pedata, inutile avvisare
che costano un milione e mezzo: farsi un
paio di Tod’s piuttosto, che la base non si turba
e il fatturato di Della Valle fa drizzare al
Cav. la rinnovata capigliatura. E’ sempre
strano l’uso che si fa dei soldi, ma per quello
di sinistra è pure pericoloso. Si è mai capito
perché il solo dire “champagne!” getta sempre
un po’ di scompiglio nel campo democratico,
ma tutte le menate da cittàdelgusto
& gamberirossi – roba che satolla ma svuota
le tasche – vanno bene? Il democratico danaroso
sia politicamente accorto. Gli venisse
in mente di finire vicino di casa del Cav. a
Porto Rotondo, piuttosto si ficchi in un dammuso
dalle parti di Pantelleria, discutendo
dell’annata dei capperi con Tronchetti Provera
o con Dolce e Gabbana (il primo è uno,
i secondi sono due). Più che a Capri da Fede
– che poi ti sputtana con un servizio al Tg4
sulla folla in piazzetta – si rechi, ma con la
massima accortezza, ad Anacapri da Velardi.
Sfidando la legge di gravità e di Lina Sotis
Il dirigente di sinistra, sfidando la legge
di gravità e quella di Lina Sotis (alla prima
occhiata si capisce se uno ha i soldi, alla seconda
da quando), deve far vedere che è danaroso
da tempo, tanto da avere acquisito
un acclarato buon gusto. Stia lontano come
la peste, la dirigente di sinistra, dalla pelliccia
e vada sulle borse della Mandarina
Duck. Non si ostenti, a sinistra, l’oggetto di
lusso, che poi finisce come il cappotto di cachemire
del sottosegretario Bonaiuti: prende
il volo. Così becchi le contestazioni della
base e le pernacchie del ladro. Tutto dipende
da come chiami le cose: se D’Alema anziché
dannarsi con questo cavolo di Ikarus si
fosse imbarcato su un caicco turco, sarebbe
salita a bordo pure la Melandri.





[1]
CORRIERE DELLA SRA
22 dicembre 2005
DEMOCRATICI DI SINISTRA
La barca e il leasing: in difesa di D'Alema
Il polverone impedisce l'esame sereno del vero «errore» Nella condanna dello stile di vita sta lo scadimento della lotta politica
di PIERLUIGI BATTISTA


Il rischio è che la semplice intestazione di un conto presso la filiale romana della Banca Popolare Italiana possa diventare il pretesto per una gogna mediatica ai danni di Massimo D'Alema. Il pericolo è che da una rata mensile di 8.068 euro per il leasing di una barca si tragga alimento per una campagna di crocifissione politica del presidente dei Ds. Certo, in omaggio alla trasparenza e per diradare preventivamente ogni nebbia malevola sul suo nome, D'Alema avrebbe potuto seguire l'esempio di Luciano Violante il quale, prima che la vicenda finisse sui giornali, ha voluto dar pubblicità a un suo abboccamento con Gianpiero Fiorani.
Ma si tratta solo di sensibilità istituzionale dell'ex presidente della Camera, di uno scrupolo forse eccessivo, e però lodevole. Ciò che non è concepibile è che, ricavando conclusioni affrettate dall'esistenza di un conto bancario (in cui, come ha scoperto Repubblica, approdavano le somme per il bonifico attinte da un altro conto aperto presso la Unipol), venga strumentalmente messa sul banco degli accusati nientemeno che un'umanissima (sia pur elitaria) passione nautica di Massimo D'Alema per imbastire un'offensiva dalle tinte sgradevolmente moralisti- co-pauperistiche e addirittura per insinuare implicazioni giudiziarie a carico di un esponente di punta dei Democratici di sinistra.
Il polverone mediatico sul «leasing di D'Alema», del resto, è destinato a produrre l'effetto opposto, impedendo una disamina serena del vero (dal nostro punto di vista) «errore» concettuale e politico che ha impedito al presidente dei Ds di cogliere i contorni autentici del terremoto bancario e finanziario di questi mesi. Nell'agosto scorso D'Alema, in una oramai celebre intervista al Sole 24 Ore, per sostenere le gesta di una nuova e spregiudicata leva di «capitani coraggiosi», decise di ergersi a difesa non solo di Giovanni Consorte (accreditando i pregiudizi più triti sulle finalità della cosiddetta «finanza rossa»), ma di tutti indiscriminatamente i protagonisti (compreso chi, come Emilio Gnutti, era stato già condannato per insider trading) di scalate turbolente e assalti avventurosi. Però, nella foga di quell'arringa difensiva tanto appassionata quanto generosa nei confronti di chi, sempre a nostro parere, non meritava un simile autorevole scudo, forse non ebbe il tempo di capire che in questo modo non si faceva altro che esulcerare il già acuto disagio del suo stesso partito.
Parve ai più che D'Alema cercasse di trascinare i Democratici di sinistra in un'azione di sostegno acritico nei confronti dell'Opa Unipol sulla Banca Nazionale del Lavoro, anche se l'affiorare di una vasta e qualificata area di recalcitranti, di critici e di aperti oppositori sotto e nei dintorni della Quercia ha messo in luce in quel partito una vena di robusta dialettica democratica. Sembrò che in questa maniera D'Alema offuscasse le modalità spericolate con cui si stava inerpicando un gruppo variegato ma sostanzialmente concorde e convergente di raider senza scrupoli. E l'insieme di queste incomprensioni finì, agli occhi di molti, per alimentare la sensazione che proprio il presidente dei Ds esponesse il suo partito all'ingiusto sospetto di un'eccessiva indulgenza nei confronti del Governatore di Bankitalia come manifestazione pubblica di un inconfessabile scambio di interessi.
Questa è la sostanza della critica politica all'atteggiamento tenuto da D'Alema nella vicenda. Da qui alla pratica dei processi sommari e senza fondamento ce ne corre. Per non parlare delle inquisizioni predisposte per condannare senza appello lo stile di vita di un personaggio politico e persino le sue predilezioni che si esprimono nell'insindacabile gestione del tempo libero. Uno spirito inquisitorio che appare il sintomo di uno scadimento della lotta politica di cui non si sentiva il bisogno.


INES TABUSSO