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CORRIERE DELLA SERA
17 gennaio 2006
Il caso
Affari sospetti, Deaglio gira la Silvio-story
Film stile Michael Moore.
Il direttore del Diario e Cremagnani: si parla di mafia, sarà una bomba

MILANO—«C’era una volta..."Un re!" diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato». In effetti c’era una volta un tycoon brianzolo che divenne presidente del Consiglio, all’inizio del film si vede Lella Costa che legge Pinocchio e introduce soave il tema, «Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro...», solo che qui il Paese di Balocchi dove i «ragazzi svogliati» vengono trasformati in «ciuchini » è diventato l’Italia, l’omino che li acchiappa è Silvio Berlusconi e il racconto si fa ben presto una fiaba nera. Titolo: «Quando c’era Silvio».
C’è l’imprenditore un po’ ruspante che nel ’93 riceve il «signor Gorbaciov» e la moglie Raissa ad Arcore («ehi, se vuole champagne glielo diamo!»), la telecamera perfida che si sofferma su Berlusconi impegnato in tenaci aggiustatine al cavallo dei pantaloni mentre mostra la residenza agli ospiti e li fa scendere nel mausoleo alla Tutankamon della «gens berlusconiana». E c’è il pupillo di Borsellino, Antonio Ingroia, il pm del processo Dell’Utri che intervistato a luglio fissa la telecamera e racconta dell’incontro tra Berlusconi e Stefano Bontade, allora capo di Cosa Nostra, «organizzato da Dell’Utri e Gaetano Cinà alla fine degli anni Settanta».

In principio le immagini mostrano un Enrico Deaglio che si aggira in un ambiente in penombra, «alla fine del 2005, una stanza racchiudeva la sua epoca e i suoi cimeli», faldoni sulla P2, libri inchiesta, una toga, un casco di banane, «sarà una bomba», sorride il direttore di Diario, quello in carne e ed ossa, seduto nel salotto di casa accanto al coautore Beppe Cremagnani. I due giornalisti lavorano insieme dai tempi di Milano, Italia, per l’intervista al direttore dell’Economist Bill Emmot, con relative polemiche, hanno dovuto lasciar perdere la trasmissione l’Elmo di Scipio.Ma ora, dopo averlo invano offerto a Raitre («nessuna risposta...»), sono pronti a calare l’asso: all’inizio di febbraio Quando c’era Silvio si moltiplicherà in centomila dvd in vendita (18 euro, compreso il libro di «contenuti speciali») con il settimanale Diario, nelle librerie Feltrinelli e attraverso il circuito Home Video Trade, «stiamo lavorando anche all’uscita nelle sale».
Si parlerà, poco ma sicuro, di un film «alla Michael Moore», ma Deaglio scuote la testa, anche perché «Moore è uno che le fa perdere, le elezioni, e questo film le fa vincere: centomila dvd fanno almeno cinquecentomila spettatori, e ciascuno conoscerà almeno un elettore di Forza Italia deluso...». Del resto qui «non ci sono provocazioni» ma una serie di interviste inedite e un lavoro raccontato dalla voce narrante di Deaglio al passato remoto, un’ora e mezzo a ricostruire trent’anni di storia italiana nella convinzione «che il berlusconismo sia finito». Di Moore c’è il gusto dell’immagine esilarante e grottesca, come l’intera sequenza della lite con i parlamentari europei a Bruxelles, «siete turisti della democrazia!», il «kapò» all’indirizzo del socialista tedesco Martin Schulz, la facce impietrite di Fini e Prodi.O Berlusconi che organizza la claque a Putin in un villaggio sardo, «mi raccomando, ragazzi, io ve lo porto ma voi gridate: Vla-di-mir!». O ancora Cesare Ragazzi che boccia il trapianto di capelli. Oppure l’intervista allo scultore Cascella che svela i segreti del mausoleo, le immagini mai viste della stanza grande per il capo, i loculi laterali per gli amici più fedeli, la leggenda metropolitana che vuole la tomba pronta a ibernare i suoi ospiti, «l’impianto elettrico è sproporzionato, potentissimo...».
L’essenziale non è il conflitto di interessi o la censura, «noi non ci siamo lamentati e con appena 60 mila euro abbiamo mostrato che un film così si poteva fare». No, l’essenziale è molto peggio. Si parte dalla Milano dei primi Anni Settanta, una città dove capitava «di incontrare strani personaggi, Michele Sindona, Roberto Calvi, Luciano Liggio, Stefano Bontade». È un verminaio che segna il cambiamento, le vecchie famiglie altoborghesi cedono il passo e bisogna vederla, l’intervista che Guido Vergani fece a Gioia Falk, «sono cambiati i tempi, moralmente la gente come la mia famiglia ha meno importanza, anche come esempio, gli esempi sono altri». Così le musiche di Carlo Boccadoro e l’immagine ricorrente di un gigantesco Cavallo di Troia scandiscono l’ascesa del giovane Berlusconi, un uomo «dalla straordinaria capacità di farsi prestare soldi da persone che restano anonime». Si racconta la storia della Villa Casati-Stampa ad Arcore, gioiello settecentesco acquistato con appena cinquecento milioni, quadri del Tintoretto compresi, grazie al tutore della ragazzina che l’aveva ereditata, Cesare Previti. E pure del famoso stalliere di Arcore, il boss mafioso Vittorio Mangano, assunto da Dell’Utri, che passò gli ultimi giorni in carcere, malato di cancro, perché «rifiutò di barattare la sua dignità con la libertà», si legge nella sua lapide a Palermo.
Intervistato da Fabrizio Calvi 50 giorni prima d’essere ammazzato, Borsellino spiega che i «cavalli» in gergo sono le partite di droga. Gli chiedono: è normale che uomini d’onore avessero collegamenti con Berlusconi e Dell’Utri? E il magistrato: «È normale che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerchi gli strumenti per poter questo denaro impiegare, sia dal punto di vista del riciclaggio, sia per far fruttare questo denaro». L’11 dicembre 2004 Marcello Dell’Utri viene condannato in primo grado a 9 anni per concorso in associazione mafiosa. Il pm Ingroia racconta di quando il premier, sentito come testimone, «si avvalse della facoltà di non rispondere». A proposito della nascita di Forza Italia, spiega: «La sentenza di condanna del senatore Dell’Utri dice che si adoperò e si gettò a capofitto con un ruolo decisivo rispetto alla fondazione del movimento per andare incontro ai desiderata di Cosa Nostra».
Il montaggio è spietato, all’immagine di Dell’Utri che dice «la mafia non esiste, è un modo di essere, di pensare» e spiega di «averla vista solo al cinema o sui libri», segue un Totò Riina, faccia alla Buster Keaton, che sillaba imperturbabile: «Cosa Nostra? Non ho frequentato, non conosco, mai sentito parlare». Alla fine, come al processo, si mostra il ritratto di un Berlusconi che non comanda «ma è guidato », sospira Deaglio. E ora, è finita? La voce narrante, tra le immagini del casting del Grande Fratello, dice angosciata: «Lasciò un’Italia vaccinata, ma anche plasmata a sua immagine». Alla fine c’è di nuovo Lella Costa che legge Pinocchio, «E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino?»
Gian Guido Vecchi
INES TABUSSO