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"Mettetevi al posto suo: cosa avreste fatto, ieri, costretti ad assistere al trionfo di un «comunista», sia pure british e non propriamente trinariciuto? Lui si è piegato facendo tutto il possibile per dimostrare quanto gli pesasse. Trequarti d’ora a dargli ostentatamente le spalle. A tamburellare con le dita sul tavolo come chi è molto annoiato. A leggere e piegare, rileggere e ripiegare, il fascicoletto del cerimoniale. A sospirare vistosamente per sottolineare la sua insofferenza"



CORRIERE DELLA SERA
16 maggio 2006
E Silvio disse: state composti, come a un funerale
Gian Antonio Stella

«Agli ordini». Silvio Berlusconi ci ha provato, a sdrammatizzare tutto con una battuta, quando «sir George» Napolitano è uscito da Montecitorio. Ma certo il cerimoniale, che ieri gli assegnava una parte non solo di spalla ma quasi di valletto, sia pure di lusso, deve essergli pesato come un macigno: il destino cinico e baro aveva assegnato proprio a lui (a lui!) il compito di accompagnare al Quirinale il primo «comunista» mai eletto a capo dello Stato. Una beffa. Che il Cavaliere ha vissuto con la faccia di un colitico vegetariano obbligato a deglutire bucatini con la pajata. Terreo, le labbra serrate, gli occhi socchiusi, la pelle della fronte tirata per la tensione con qualche rischio per le delicate suture estetiche, è entrato nell’aula tra gli ultimi e, prima di andarsi a piazzare al banco del presidente del Consiglio che per qualche giorno ancora gli spetta, è passato un attimo davanti alle prime file dei suoi di Forza Italia per suggerire: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un funerale».
E per trequarti d’ora è rimasto lì, inchiodato al suo posto. Senza unirsi al battimani corale dei deputati e dei senatori all’ingresso in assemblea del successore di Carlo Azeglio Ciampi. Senza concedergli un cenno di saluto. Senza mai voltarsi una volta, neppure una, mentre quello faceva il suo discorso d’insediamento. Senza mai porsi il problema dello sgarbo istituzionale che gli sarebbe stato poi rinfacciato da un po’ tutta la sinistra, a partire da Pierluigi Bersani: «Cafonissimo».
C’è chi dirà, tra i suoi, che il broncio era dovuto al fatto che Napolitano non si era ricordato di lui nei saluti iniziali. «Vogliamo credere che sia stata solo una vista», sibilerà Renato Schifani.
«Discorso deludente», rincarerà Elio Vito, «inoltre poteva essere rivolto un saluto al presidente Berlusconi e all’opera preziosa di governo che è stata assicurata in questi anni difficili dal punto di vista interno e internazionale». Ma lo sanno anche loro che il punto non è questo. Ciampi fece lo stesso: nessun saluto al premier D’Alema, nessuno al suo governo, nessuno ai ministri. Non era nella prassi. Fine.
A rendere fastidiosissimo quel passaggio istituzionale per il Cavaliere, che per anni ha coltivato l’immagine del «vincente» e odia perdere, era in realtà lo scherzo che gli ha tirato la sorte. Dannazione, proprio a lui! Lui che già nel discorso della «discesa in campo» non aveva citato manco una volta i temi che avrebbe poi cavalcato (mai le tasse e l’impegno di tagliarle, mai il rapporto con l’America, mai la necessità di ponti e strade e tangenziali) preferendo attaccare frontalmente i comunisti e «gli orfani e i nostalgici del comunismo» e le sinistre che «dicono di essere diventate liberal-democratiche, ma non è vero perché i loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro comportamenti sono gli stessi».
Sono anni che, infischiandosene dei consigli di chi gli diceva di lasciar perdere (come Giuliano Ferrara che sbadigliò lamentando un’«irrecusabile noia intellettuale») batte su questi tasti. È andato a inginocchiarsi in un santuario mariano prima della finale della Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest pregando la Madonna di dargli una mano a «battere i comunisti». Ha mandato una lettera ai parroci romani, in quel 1994 in cui aveva come avversario nel collegio non solo il «rosso» (?) Luigi Spaventa ma anche il democristiano Alberto Michelini, invitandoli a non votarlo «per non far vincere Spaventa e non far trionfare il comunismo». Ha accusato la nostra Carta Costituzionale, ieri esaltata da Napolitano, di risentire «di influenze sovietiche». Ha stabilito che «il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista». Ha spiegato che il referendum sul maggioritario, appoggiato tra gli altri anche da Antonio Martino e Gianfranco Fini, era «comunista».
E poi ha incoraggiato gli italiani dicendo che «anche se Gesù ci ha mandato in terra i comunisti, ce la possiamo fare». E distribuito kit elettorali dove si suggeriva di bombardare gli elettori spiegando che «il comunismo al potere ha sempre e dovunque prodotto: 1) miseria 2) terrore 3) morte». E bollato come «cattocomunista» una figlia di Maria, sia pure assai combattiva, come Rosy Bindi che gli rispose: «Ma se non facevo nemmeno la spesa alla Coop, tanto ero anticomunista!». E indottrinato certe pasionarie come la bolzanina Michaela Biancofiore al punto che quella se n’è uscita spiegando che l’Alto Adige (l’Alto Adige di Magnago e Durnwalder e degli schützen!) è «pieno di comunisti» o anche se certo «non con la falce e il martello, ma con quello che Berlusconi intende per comunismo: l’omertà, l’occupazione della società, la paura di essere tagliati fuori. Come nelle Regioni rosse e in Alto Adige dove dei dc di sinistra applicano le regole Urss». Sud Sovietic Volkspartei...
Per non dire delle innumerevoli volte in cui lui, il premier azzurro, ha messo in guardia contro «i diessini o meglio i comunisti» che «sono gli stessi che hanno plaudito alla più feroce e disumana impresa della storia dell’uomo e dobbiamo perciò, quando li incontriamo, ricordarci che sono stati complici, politicamente e moralmente, di quanto è accaduto sotto i regimi comunisti».
Mettetevi al posto suo: cosa avreste fatto, ieri, costretti ad assistere al trionfo di un «comunista», sia pure british e non propriamente trinariciuto? Lui si è piegato facendo tutto il possibile per dimostrare quanto gli pesasse. Trequarti d’ora a dargli ostentatamente le spalle. A tamburellare con le dita sul tavolo come chi è molto annoiato. A leggere e piegare, rileggere e ripiegare, il fascicoletto del cerimoniale. A sospirare vistosamente per sottolineare la sua insofferenza. A rifiutarsi di applaudire se non quando proprio non poteva esimersi, come sul cordoglio per i militari morti nelle missioni in Afghanistan o in Iraq o sul ringraziamento alle forze dell’ordine o sul plauso al modo in cui Ciampi si è conquistato nei suoi sette anni la stima e l’affetto degli italiani. A lanciare occhiate incendiarie, se non proprio di odio, agli alleati come Pier Ferdinando Casini che gli sembravano troppo generosi nello spellarsi le mani per quel «comunista».
Per andarsene infine, per primo, così che tutti lo vedessero, mentre tutti (quasi tutti) erano in piedi come richiesto, al di là delle polemiche, dei torti e delle ragioni, dal fair-play.
Brutta giornata. Proprio una brutta giornata. Peggiore perfino di quella, che gli sarà tornata in mente in questi momenti di scandali calcistici, in cui un gruppo di tifosi avversari gli srotolò davanti il più infame degli striscioni: «Milanista ladro comunista».


INES TABUSSO